Avevo 30 anni quando mi laureavo in Scienze Politiche con una tesi in Sociologia dell’educazione sul liceo di Bondeno; queste erano le mie conclusioni di allora:
All’interno del presente lavoro si può dire che quattro sono stati i filoni attorno a cui si è
articolata la ricerca: 1) funzione della scuola; 2) dibattito politico sulla secondaria in
particolare; 3) scuola e mercato del lavoro; 4) i bisogni dei giovani.
Per ognuno di questi settori esiste una vasta bibliografia e il dibattito ampio e contraddittorio
è tuttora in corso; la ricerca ne fotografa un momento, chiaramentte con tutte le limitazioni
degli strumenti usati: ciò che si può fare, quindi, è solo indicare alcune tendenze.
Riguardo alla secondaria superiore c’è da dire che gli studenti sembrano aver recepito gli
elementi più macroscopici del dibattito quali ad es. l’estensione dell’obbligo a 16 anni, la
minor rigidità dei piani di studio, la introduzione di materie che leghino maggiormente la
scuola alla società.
Sono rimasti in ombra i problemi di fondo della funzione educativa, anche perché il
questionario non era mirato su di essi. Tali problemi sono stati invece recuperati dai
colloqui con gli insegnanti che hanno dimostrato di conoscere le tematiche più dibattute: dal
descolarizzare la società, alla istruzione ricorrente. Inoltre gli insegnanti, probabilmente
perché maggiormente coinvolti degli studenti (per i quali il periodo scolastico è solo
una specie di “sala d’aspetto”) sembrano sentire con particolare disagio i problemi connessi
alla struttura dello istituzione, che accusano di chiusura e ” burocratismo”.
Sia gli studenti, sia gli insegnanti sembrano essere d’accordo sulla necessità della formazione
professionale, ma gli uni preferirebbero lasciarla ad organismi paralleli alla secondaria (cosa
del resto verificatasi nei progetti di riforma), mentre gli altri la vorrebbero all’interno della
superiore, il cui titolo di studio dovrebbe (almeno per il 75% di loro) rispondere ad una
professione specifica.
Se ne ricava quindi un’immagine dei giovani tutto sommato abbastanza integrata e disposta ad
accettare i meccanismi tradizionali di inserimento sociale. Ciò che cambia è solo il modo di
“viverli”: valori quali la serietà e l’onestà sembrano aver perso ogni attrazione e la realtà
lavorativa è vista strumentalmente come puro mezzo di sopravvivenza, senza la pretesa di
riempire con essa la vita.
La prospettiva sociale poi, anche se presente, è però sempre subordinata alla propria
autonomia e indipendenza ed alla soddisfazione personale (da attuarsi sia col reddito sia con
la esplicazione delle proprie capacità).
Questi giovani non sono però ancora arrivati (anche perché l’inchiesta è del 1977) ad
un’assoluta chiusura nel personale , come invece si sta profilando nelle ultime generazioni.
Si può dire insomma che dei due movimenti che hanno animato gli ultimi anni, quello del
’68 e quello del ’77 i giovani dell’inchiesta non hanno risentito gli effetti e per la loro
età e per l’ambiente socio-familiare che è ancora di tipo rurale tradizionale.
D’altra parte di ciò non c’è da stupirsi visto chè lo cultura contadina, come sostiene Altan,
è tuttora una costante dei giovani italiani.
In positivo si può dire che questi giovani hanno una visione più disincantata del mondo,
anche se, in generale, non hanno potuto conoscerne a fondo i meccanismi, data la
separazione tuttora esistente tra lo scuola e l’esterno; per cui la scuola o altri agenti
socializzanti, sembrano averli dotati di spirito critico, ma fine a se stesso, che non si esplica
cioè in qualche progetto particolare.
A questo punto le varie tematiche sull’educazione (formativa o professionalizzante, continua o
discontinua, descolarizzata o meno, egualitaria o , selettiva e su quali parametri) si
scontrano con una struttura che non favorisce il dibattito, e per le caratteristiche stesse
dell’istituzione e per l’atteggiamento degli studenti che accetta scuola come un’agenzia di
collocamento.
Il discorso invece andrebbe spostato dalla scuola all’educazione e, solo in tal modo, anche
sulla traccia di modelli utopici quali quello di Alberoni , di Illich, si potrebbe sperimentare
un’alternativa che sia veramente tale.
Ora se questo avviene a livello di esperti dell’educazione, manca però nei progetti
considerati, anche per le caratteristiche intrinseche del sistema politico italiano che fonda
la sua sopravvivenza sulla dilazione e sul compromesso, incapace, per sua stessa natura, di
scelte radicali.
Analoga è la situazione nel campo della politica del lavoro, ulteriormente aggravata anche
dalla miriade di interessi corporativi del settore. Inevitabile quindi che le tematiche sulla
qualità del lavoro (intellettuale o manuale) con relativa discussione sugli interventi necessari
a capovolgere la tendenza in atto (diviso o integrato) e sulle quantità (rapporto domandaofferta,
part-time o full-ti me) finiscono per risolversi nei soliti sterili dibattiti tra esperti
senza trovare mai applicazioni pratiche (anche solo parziali e sperimentali) nella realtà.
Inoltre i diretti interessati, i giovani disoccupati, si trovano in una condizione tale da poter essere
mantenuti a lungo dalla famiglia di origine e il mercato del lavoro stagionale e saltuario permette loro
di avere quel tanto che basta per i loro bisogni più immediati .
Più che nelle tensioni sociali quindi, bisogna sperare nelle tensioni familiari per arrivare ad
una rottura, a meno che la società post-industriale non riesca a creare uno spazio per i
dropouts.
In caso di fallimento di tale politica la strada che i futurologi ci indicano come la più
probabile sembra essere quella di un graduale ritorno al Medio Evo, dove i barbari
sarebbero proprio gli emarginati di oggi (popoli sottosviluppati e giovani dei paesi exindustrializzati).
Questa però è un’ipotesi abbastanza fantascientifica e di lungo periodo che non tiene conto
delle capacità di adattamento della società di massa, per cui a breve termine appare più
realistico il quadro ipotizzato da Marcuse in un’intervista a “Repubblica” del 19 agosto
1976: “Oggi il potere costituito tende a rafforzare il proprio sistema repressivo e lo estende
alla sfera in cui si formano i bisogni e le soddisfazioni individuali. Così come questi
bisogni devono, nella cultura materiale, essere adattati al prodotti che il sistema fornisce,
nel campo della cultura intellettuale occorre restrìngere lo spazio dei bisogni e delle
soddisfazioni trascendenti
, inutili e persino pericolosi per l’establishment a vantaggio dei
valori e dei modi di pensare necessari al processo di riproduzione sociale,
Oggi è in corso un attacco per incanalare scuole e università nel senso della formazione
professionale: si riduce lo spazio delle discipline umanistiche e delle scienze sociali; si
abbassa il livello dell’insegnamento non professionale. In tal modo la sempre più gigantesca
forza lavoro necessaria al buon funzionamento del sistema verrà addestrata fin dall’infanzia al
compito di riprodurre in se stessa la propria esistenza sociale e il proprio asservimento
attraverso il linguaggio appreso, i sentimenti inculcati , le soddìsfazioni che le si
insegna a desiderare… Sta forse per nascere un nuovo sistema sociale: un regime neo o semi-fascista con larga base popolare”.