“Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di intere ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l’equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall’annuale crescita dei campi di canapa?”
Henry Ford
I ricordi più dolci che ho di mia madre, erano quelli nei quali mi raccontava l’epopea della canapa, e come quella pianta girovagasse intorno alle vite di donne e uomini, nel lontano ferrarese dei lontanissimi anni ’30. Tutto ruotava intorno a quella pianta gigantesca – arriva a sei metri! – che nasceva con poche cure e forniva raccolti abbondanti, che richiedeva però quasi una liturgia dopo il raccolto. E tanta fatica.
Se ben ricordo, dopo la raccolta, la parte più legnosa doveva essere separata da quella più flessibile, che serviva per le fibre tessili e, per separarle – a parte varie operazioni meccaniche, svolte a mano oppure con rudimentali macchine ed attrezzi – bisognava metterla in acqua.
Così, dopo una prima separazione delle parti più legnose, le parti più “tenere” della pianta venivano legate fra loro per creare una sorta di zatteroni, che venivano affondati nei maceri, che erano dei piccoli laghetti alimentati dai canali i quali, nella “bassa”, corrono ovunque, formando una ragnatela che, dal Grande Fiume, si dirama fra strade e poderi.
A quei tempi, il macero veniva usato anche per l’allevamento spontaneo di pesce: carpe, tinche e anguille che, insieme alle uova ed a qualche pollo, fornivano un po’ di proteine per una dieta che, all’epoca, era quasi vegetariana diremmo oggi, ma allora era un vegetarianesimo forzato, dovuto alla povertà.
C’era anche il maiale, accudito con tutte le attenzioni possibili, poiché le famiglie erano molto numerose, e tutti i giorni si doveva mettere in tavola qualcosa per sostentare gente che faticava di zappa, vanga e scure ogni giorno dell’anno.
Dopo aver affondato la canapa nei maceri, il pesce “sballava” un po’ e veniva a galla: così – ricordava mia madre – partivano lei, ragazzina, e mio prozio, di pochi anni più grande, con la fiocina per catturarli: dopo, li infilavano con un ramo di salice, facendolo passare dalla bocca alle branchie e tornavano a casa con lunghe sfilze di pesci, che erano la dannazione della nonna, regina della cucina. Perché?
Poiché non avevano olio per friggerle! In quelle terre, così lontane da quelle dell’olivo, la penuria d’olio era endemica, giacché i metodi per estrarlo dai semi (mais, girasole, ecc) richiedevano una tecnologia troppo avanzata per dei semplici contadini. Potenti macine, poi torchi o viti senza fine di raffinata produzione meccanica erano oltre le loro possibilità.
Per non parlare delle estrazioni con solventi chimici, che oggi vanno per la maggiore e sono consentite dalla legge (italiana ed europea) se il solvente (n-esano) non recuperato non supera le 0,012 parti per milione. Anche usando il miglior olio di semi in commercio (quello di girasole è forse il migliore) qualche microgrammo di n-esano, alla fine, ce lo becchiamo ogni volta che si frigge qualcosa.
Così, quel pesce finiva sulla gradella, che era l’antenata delle nostre griglie per il barbecue: circolare, fatta di lamiera con, in alto, la griglia, era usata per tutte le attività di cucina. La mettevi sulle braci del camino e, sopra, pentole o padelle o, all’occorrenza, i pesci ad arrostire. Ne ho conservata una, e talvolta la uso per cuocere minestre o per sterilizzare la salsa di pomodoro.
Terminata la macerazione della canapa, e raccolto tutto il pesce possibile, si ritirava la canapa all’asciutto e si apriva la chiusa del canale, così cominciava un altro anno di pesca ed allevamento.
La canapa, a quei tempi, veniva filata e tessuta in casa: ho conservato alcune lenzuola – che oggi hanno quasi un secolo! – e sono di una robustezza incredibile, perché i tessuti di canapa sono un po’ grezzi, ma robustissimi.
Le fibre tessili della canapa sono divise in due qualità: quelle più fini per la produzione di tessuti e quelle più grezze con le quali si fanno i cordami, i “canapi”.
estratto da http://carlobertani.blogspot.com/2019/11/cannabiniamosi-o-no.html