15 anni di euro

15 anni di Euro

di Ilaria Bifarini

Non è stato certo un compleanno all’insegna dei festeggiamenti quello per il quindicesimo anno dell’Euro.

L’1 gennaio 2002 dicevamo addio alle lire per sposare il
progetto europeo della moneta unica. Una vera comodità, dicevano in
molti – in particolare i più giovani – poter girovagare per l’Europa
senza dover passare per lo sportello dei cambi! Un segno di
unità e appartenenza, visto che i soldi, inutile fare gli asceti, sono
il veicolo per il consumo, il gesto più identitario della nostra
società. Comprare un caffè a Berlino, Parigi e Roma acquisiva un po’ lo
stesso sapore, e pazienza per l’aroma, la tazzina e il prezzo! Eppure
l’entusiasmo con cui l’allora premier Prodi (passato ai posteri con un
altro appellativo, questo sì molto nazionale) ci traghettò nella moneta
unica – «lavoreremo tutti un giorno in meno per guadagnare di più» –
incontrava già qualche ponderate resistenza da parte di alcuni
autorevoli economisti.

Ma passarono in sordina, così come nelle università improntate al credo
neoliberista le pagine di critica alle unioni monetarie dei principali
manuali di macroeconomia venivano saltate a piè pari.

Vedi: YouTube.com/watch

Prodi sulla genesi dell’euro: «Noi sapevamo benissimo che bisognava fare
i passi successivi che dessero all’euro delle fondamenta stabili.
Quante volte ne ho parlato con Kohl. La sua risposta era: Romano,
l’Europa non si fa in un giorno solo perché Roma non è stata fatta in un
giorno solo».

Solo oggi, dopo quindici anni, la voce dei “dissidenti” trova spazio nell’informazione ufficiale.
In occasione della ricorrenza, il quotidiano Libero ha pubblicato un
inserto con una rassegna esaustiva delle voci di accreditati economisti e
statisti che hanno criticato, più o meno apertamente, gli effetti
economici distorsivi dell’adozione di un’unione monetaria laddove manchi
un’armonizzazione sotto altri fondamentali aspetti, politici ed
economici. Persino a taluni insospettabili è scappato in qualche
occasione di dire la schietta verità. Così il ministro Padoan che, da
economista qual è, si è lasciato sfuggire un assioma: se uno
Stato non dispone più degli autonomi strumenti di politica monetaria che
gli consentono svalutare la valuta è per forza di cose costretto a
svalutare il lavoro.

Qualche esempio dell’attendibilità della sua tesi? La bilancia
commerciale italiana dall’entrata in vigore dell’euro ad oggi (ma anche
qualche anno prima visto che l’ingresso della moneta unica è stata la
fase conclusiva di un processo la cui fase preparatoria era partita da
tempo) è crollata, così come lo è quella di gran parte dei Paesi
europei, tranne uno. Questo Paese, come ormai noto anche ai più
euro-entusiasti, è la Germania, sui cui parametri economici l’euro
sembra modellato. Tuttavia non dobbiamo cedere ai facili stereotipi dei
tedeschi autoritari e con manie di dominio mai abbandonate, perché
l’onestà intellettuale non manca tra i tedeschi: il consulente del
Ministero delle Finanze tedesco H. Flassbeck ha riconosciuto che «la Germania viola le regole dell’Europa fin dall’inizio»
e il consulente aziendale tedesco R. Berger ha affermato che «la
Germania dovrebbe abbandonare l’euro per far sì che l’Unione
sopravviva».
Bilancia commerciale tedesca esplosa dal 2002 in poi con
l’euro

Apprezziamo molto la genuinità teutonica, ma la sopravvivenza
dell’unione monetaria sarebbe deleteria a prescindere. Per sgombrare il
campo da incomprensioni analizziamo cosa succede a uno Stato quando
perde la sovranità monetaria, intesa come la facoltà da parte di uno
Stato di emettere o stampare moneta in linea con le sue scelte di
politica monetaria. E’ ovvio che venendo meno questa facoltà la
politica economica di un Paese diventa monca di uno strumento
fondamentale e quindi impossibilitata nell’adozione di politiche
economiche adeguate alle esigenze contingenti e strutturali del Paese.

Ma cos’è esattamente la moneta? La domanda sembra banale, eppure il
premio Nobel dell’economia James Tobin rispose «Non c’è argomento più
difficile da spiegare per gli economisti al pubblico laico, compreso a
loro stessi, come quello della moneta». Nel sistema monetario moderno,
ossia quello che si è venuto a configurare con la fine del regime di
Bretton Woods avvenuta tra il 1971 e il 1973, smantellato ogni rapporto
con le riserve auree, la moneta attuale – cosiddetta “fiat” – non ha più
alcun valore intrinseco. Suonerà blasfemo dirlo, ma è un semplice pezzo
di carta o un insieme di impulsi informatici, quindi può essere creata
all’infinito senza nessun rischio che si esaurisca. Certo, attraverso i
prezzi è un’unità di misura convenzionale del valore dei beni, così come
il kilo lo è del loro peso e il metro della loro grandezza. Essa
inoltre è l’unico mezzo con cui il cittadino può pagare le tasse allo
Stato.
Lo storico annuncio del presidente americano Nixon che il 15 Agosto 1971
sospese la convertibilità del dollaro in oro, dando inizio alla fine
del regime di Bretton Woods

Torniamo al nostro Stato sovrano, quello che può emettere moneta, come
avveniva in Italia prima dell’euro e come avviene nella gran parte dei
Paesi non europei (i casi di unione monetaria nel mondo si contano sulle
dita di una mano). Lo Stato ha il monopolio della propria valuta che
monetizza attraverso le banche centrali e immette sul mercato per gli
investire nella spesa pubblica e nei servizi sociali per i cittadini:
poiché la carta e i bit elettronici sono risorse illimitate, il suo
unico vincolo di spesa è definito dalle risorse umane e ambientali. A
differenza delle famiglie e delle imprese, essendo detentore della
valuta, non è sottoposto all’oneroso vincolo del pareggio di bilancio,
per il quale le entrate (tasse) dovrebbero uguagliare le uscite (spesa
pubblica), situazione non solo impossibile ma assolutamente deleteria
per il benessere della popolazione. Ciò, è evidente, non vuol dire che i
governi debbano darsi alle spese folli emettendo moneta a loro
piacimento: l’attenzione alla produttività e al contenimento
dell’inflazione, all’innovazione e alla corretta redistribuzione sono
vincoli ineludibili, come il rispetto dell’esauribilità di alcune
risorse materiali e immateriali.

Nel sistema euro, senza sovranità monetaria, l’unica autorizzata ad emettere moneta è la BCE (Banca Centrale Europea), che lo fa ricorrendo ai mercati di capitale privato, ossia le grandi banche di investimenti internazionali .
Al pari di un cittadino comune, lo Stato è costretto a prendere in
prestito il denaro da spendere dai mercati finanziari internazionali,
che applicano un tasso d’interesse da loro stabilito. Per poter
effettuare spesa pubblica, ossia garantire ai cittadini quei servizi
come la sanità senza dover ricorrere all’offerta privata, è costretto
sia ad indebitarsi sia a tassare in modo consistente i cittadini stessi.
Così la spesa a deficit, che in un governo responsabile e onesto è
funzionale al benessere economico del Paese, con la moneta unica diviene
un fardello oneroso, che arricchisce il mercato del capitale privato
internazionale togliendo soldi dalle tasche, sempre più vuote, dei
cittadini, sempre meno tutelati
.

Ilaria Bifarini

(L’Intellettuale Dissidente)

 

L’inizio della fine

Il 1978 è uno degli anni cruciali della storia Italiana sotto il profilo delle conseguenze che vediamo ancora oggi.
È il 24 maggio quando Lama annuncia per conto del sindacato che i
lavoratori dovranno accettare di immolarsi sull’altare della crisi
economica e nello stesso anno viene definito il negoziato sull’ingresso
dell’Italia nello SME e a dicembre condotto il voto decisivo.
In questo voto cruciale per la storia della Repubblica, alcuni degli
attuali sostenitori delle successive devoluzioni di sovranità sono, a
ragion veduta, su posizioni diverse e contrarie. Tra questi il Direttore
de “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, e l’attuale Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano.
Spaventa pronuncerà il suo atto di accusa (per molti versi simile al
recente dissenso manifestato da Cofferati verso il TTIP): un “trattato
ineguale” geneticamente portato ad affermare gli interessi delle potenze
dominanti. Tra l’altro Germania e Francia non avrebbero di certo potuto
raggiungere un intesa amichevole nello spartirsi le rispettive aree di
influenza economica.
«Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa
pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene
perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito.»
Tra gli scenari proposti da Scalfari all’epoca, la resa dei sindacati
sull’indicizzazione e perdita di potere di acquisto in termini reali dei
salari si verificherà puntualmente. Ma si verificherà anche quello che
porterà alle frequenti crisi valutarie degli anni seguenti, inclusa la
perdita di competitività e di quote sul mercato estero delle imprese
industriali italiane. Caduta della bilancia dei pagamenti, pressioni sul
cambio, perdita di riserve valutarie, restringimento della circolazione
interna, innalzamento dei tassi di interesse. Seguiranno aumento della
disoccupazione e discesa del reddito con conseguenti ripercussioni sulla
domanda interna. Alla fine l’ “abbandono dello SME” sarà comunque
inevitabile e avverrà nel 1992.
Tuttavia il 13 dicembre Andreotti annuncia in aula di aver ricevuto
forti pressioni da francesi e tedeschi fino alla minaccia di non attuare
del tutto lo SME se l’Italia non fosse entrata subito. A fronte di
questo ricatto morale al Parlamento viene chiesto di non indugiare oltre
e, nonostante il lucido discorso del futuro Presidente della Repubblica
secondo cui “la resistenza tedesca a dare garanzie economiche per il
riequilibrio interno della Comunità imporrà una linea di rigore a senso
unico e di tagli ai salari”, il voto sancisce la scelta epocale di
rinunciare all’indipendenza monetaria, praticamente senza aver ottenuto
nulla al tavolo delle trattative.
Ne pagheremo le conseguenze a suon di menzogne, ricatti e ulteriori
estorsioni: 1981 divorzio Banca d’Italia-Tesoro, 1990 irrigidimento
dello SME, 1992 vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht, 1998
moneta unica, 2012 pareggio di bilancio. A seguire la continua richiesta
di riforme strutturali. Tutto senza contropartita alcuna e in nome di
un mercato unico dominato solo dalla concorrenza.
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