Data: Giovedì, 18 ottobre 2007 alle 12:06:26 CEST
Argomento: Attualità
Stando al radiogiornale del mattino della National Public Radio di New York (WYNC), il direttore del Centro di Atletica della Princeton University, Gary Walters, ha dichiarato ingiusto il minor prestigio accademico dello sport rispetto al teatro, alla musica e alla letteratura, richiede quindi che anche alle discipline sportive sia riconosciuto un valore accademico.
Tanti anni fa, passando per la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, mi ricordo lo spregio di una studentessa per un suo collega un po’ facilone: “Si è laureato in football”. Oggi il direttore del Centro di Atletica della Princeton University, Gary Walters, chiede che ai migliori atleti delle università venga concesso di laurearsi in una disciplina sportiva. Se un musicista può laurearsi in musica e un giovane attore o regista in discipline dello spettacolo (per inciso: non ho mai avuto in simpatia il DAMS) perché un atleta non può laurearsi in football?
Le università americane sono strane: ci si può veramente laureare in tutto (ed è un problema), e visto che si inizia un anno prima e che, come ho già detto, le scuole superiori sono pessime, nelle istituzioni più importanti si passa almeno un anno a recuperare sul fronte della cultura generale. Se c’è però qualcosa che non manca proprio è il prestigio dello sport. Al contrario, agli atleti più promettenti vengono concesse borse di studio molto generose e sino a poco tempo fa addirittura sconti sulla preparazione agli esami; poi è scoppiato lo scandalo. Perché? Perché le università lucravano abbondantemente coi diritti televisivi sulle partite di football o di pallacanestro e sulle gare sportive.
Inoltre, nei campionati universitari gli atleti si segnalano alle grosse società sportive e quando terminano gli studi, di solito attorno ai ventun anni, firmano contratti da professionisti per mai meno di centomila dollari all’anno, più dello stipendio medio dei loro insegnanti. Non sorprende allora che il professore di letteratura inglese della Indiana University, peraltro ex-atleta, che anni fa scese in campo denunciando la mancata preparazione accademica degli atleti rischiasse il licenziamento in tronco: la vera paura dell’amministrazione centrale non erano gli studenti ignoranti, ma la perdita dei diritti televisivi.
Altro lamento ipocrita degli sportivi americani è che lo sport perda prestigio rispetto alle arti perché viene considerato mera competizione. Prego? Chi non conosce la barzelletta dei quattro attori per avvitare la lampadina, uno in cima alla scala e gli altri tre che protestano perché non sono stati scelti? Far carriera nelle arti in America comporta trasferirsi a New York (già Chicago e San Francisco sono periferia), fare gavetta per anni, mal pagati (e quindi vivere nelle peggiori topaie di Manhattan) e senza la minima garanzia non dico di gran successo, ma di semplice riuscita. Non ci sono minor leagues per gli attori o gli artisti in America: o sfondi o finisci nel ghetto dei frustrati (dei losers, degli sfigati: di quelli che si son tirati addosso il rifiuto della società ed è colpa loro). Al contrario, lo sport agonistico allena al gioco di squadra e alla competizione, ad allearsi coi compagni e a sconfiggere gli altri, che è poi il destino di una vita: saper scegliere con chi allearsi e chi mettersi contro per il proprio vantaggio. E allora perché non promuoverlo a disciplina di laurea, visto che un giorno servirà a far carriera? Buon pomeriggio, nemici sportivi.
Andrea Malaguti
E qualcuno ancora si meraviglia che non si riesca a formare una nazionale italiana di pallacanestro perché non appena qualcuno emerge scappa in America?